11/01/11

C’era una porta …


C’era una porta …
L’autorecupero ai tempi del Metropoliz (sulla base di quanto racconta Leroy)
di Francesco Careri
(articolo non pubblicato. scritto in occasione dell'articolo su Abitare, vedi post successivo)





Quello dell’autorecupero e delle tecnologie low tech è forse uno degli aspetti più incredibili del Metropoliz. Ci andiamo una mattina insieme ad alcuni studenti di architettura per vedere come procedono i lavori di autocostruzione. In una stanza appena ridipinta e controsoffittata incontriamo due elementi portanti dei quella che ci viene presentata come la “squadra edilizia”: Luis, peruviano e ingegnere informatico, e Leroy, italo-jugoslavo e studente di architettura. Con loro lavorano Boris “er Mc Guyver di Tor Bella Monaca”, Daniel “Multitaskin” e Kaetani “l’idraulico”. Luis è in Italia da otto anni e vive al Metropoliz con la moglie e due figli piccoli. Prima pagava 600 euro di affitto per due stanze, poi attraverso un passaparola ha saputo che si occupava e subito vi ha intravisto una possibilità per il futuro. La domanda per la casa popolare l’ha fatta nel 2002, ma sa che non ci sono posti e che se verrà sgomberato dal Metropoliz per lui sarà comunque l’inizio di un percorso abitativo verso la speranza di un tetto legale per la propria famiglia. Ci spiega che i compiti della squadra sono sostanzialmente due: “garantire che il processo sia sano e senza soprusi” e “abbassare i prezzi della costruzione in modo che tutti possano farsi una casa dignitosa”. La squadra coordina le attività e offre assistenza a chi non sa costruire con le proprie mani. Luis e Leroy ci spiegano come il salumificio sia una vera miniera di materiali da smontare per riciclare o rivendere a peso: “la regola è che il 70% del guadagno è la paga per chi lavora e il 30% va in cassa per l’acquisto di attrezzature e materiali nuovi”. Lentamente cominciamo a capire cosa intendono quando parlano de “il lavoro da fare”, il grosso de tempo consiste infatti nel reperire materiali andando a tagliare tubi di ferro dentro la ex fabbrica dismessa. Leroy, che sul Metropoliz sta facendo la sua tesi di laurea, ci spiega il processo con una metafora assolutamente poetica: “ la fabbrica è come un bosco, vai là con il frullino e invece dei rami e degli alberi tagli tubi e giganteschi ingranaggi di ferro, è una vera foresta di metalli. Ci sono quelli che vanno a funghi e riempiono il cestino di rubinetti di ottone, molto pregiati. E poi ci sono i cercatori d’oro, i più bravi, quelli che sanno dove si nasconde il rame nei macchinari in disuso”. Chiediamo se il proprietario sarà felice di tutto questo saccheggio. Ci rispondono che “la fabbrica è chiusa da venti anni, i macchinari sono vecchi e comunque l’ha comprata per il valore del terreno e non per rimetterla in funzione. Il proprietario vuole demolire e ricostruire, quindi gli stiamo facendo un favore, sennò avrebbe pagato qualcuno per portar via tutto. E poi noi spostiamo i materiali da un posto all’altro, li rimontiamo in nuove forme, ma rimane quasi tutto qui”. Forse è anche vero ed è comunque fantasticamente surreale. Continuiamo la visita e comprendiamo come la squadra conosce ogni angolo di questo edificio-miniera, sa dove trovare mattonelle, tegole, bagni, putrelle, cavi elettrici, lavandini, pannelli coibentati e soprattutto porte. Le porte vengono asportate, messe da parte, catalogate in abachi e poi rimontate da un'altra parte. “La porta è l’elemento architettonico più importante, è indispensabile per sancire il proprio spazio individuale, separandolo dal mare di acciaio”. Sorridendo Leroy cita a memoria William Morris: “Perdona me che lotto per una piccola isola di beatitudine in mezzo al frangersi del mare di acciaio”. Ci guida tra scale semidemolite e stanze con enormi macchine ancora intatte, in fondo spera che si salveranno dalla spoliazione, conosce il valore culturale delle architetture industriali e cerca di salvare il salvabile in una sorta di magazzino atelier, sotto una tettoia dove colleziona e nasconde almeno un campione per ogni elemento architettonico. Attraversiamo diversi cortili in un alternarsi luci, ombre e ambienti domestici. Molte delle case che vediamo sono tipologicamente notevoli. Alcuni ucraini hanno sistemato una grande cucina comune tra due case monofamiliari. C’è chi ha il bagno in casa e chi usa scale e bagni come nocciolo servizi, come nei loft ultima moda. Leroy e Luis ci mostrano il plastico del progetto dell’intero stabile che viene deciso di volta in volta in assemblea: “è quasi definivo e all’interno della fabbrica troveranno posto anche i Rom Rumeni che oggi occupano il capannone vicino. Accanto alle sale dove fare le feste ci saranno gli spazi comuni da aprire al quartiere, la scuola di italiano, sale letture, discoteca, campi da calcetto, addirittura piscine e un presidio medico sanitario. Procediamo verso l’uscita quando Leroy si ferma all’improvviso: “Questa è la cosa più importante che abbiamo fatto” - indica un grande tubo di ferro che corre dritto per un centinaio di metri - “è una tubatura da due pollici, interamente smontata, filettata con madrevite e riavvitata per allacciarsi all’acquedotto comunale con prussiane giganti.” Apre un rubinetto ci offre un bicchiere di acqua fresca e sentenzia: ”Nella foresta le case crescono come i frutti, appena porti l’acqua e apri un rubinetto subito ci nasce una casa. Le case vanno dove va l’acqua.”

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