18/05/12

LA CITTA' METICCIA alla Biennale dello Spazio Pubblico di Roma 2011

LA CITTÀ METICCIA
SESSIONE TEMATICA DELLA BIENNALE DELLO SPAZIO PUBBLICO
PROMOSSA DA INU - ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA
SABATO 14 MAGGIO, ORE 9,30 – AULA F
Ex Mattatoio di Tesaccio, Facoltà di Architettura di Roma Tre

Il tema di questa sessione è quello delle occupazioni a scopo abitativo, osservate non solo come efficaci risposte al problema della casa, ma come interessanti laboratori di spazi pubblici interculturali. Da diversi anni nelle occupazioni la popolazione di origine straniera ha superato quella di origine italiana, ed è lì che si sta sperimentando la città meticcia abitata da popoli provenienti dai cinque continenti. Sono realtà che spesso hanno molto da insegnare al resto della città per quanto riguarda le contaminazioni tra le diverse culture e che recentemente sono state capaci anche di includere comunità di Rom altrimenti destinate a vivere in baraccopoli o in campi fuori dalla città. Le occupazioni, quindi, lette come condomini interculturali dove oltre alle case esistono cortili, giardini, spazi di soglia, spazi comuni ormai estinti nel resto della città. Ma le occupazioni anche come luoghi dove la città ha difficoltà ad entrare e da cui è problematico uscire, enclave le cui mura diventano a volte barriere fisiche insormontabili come i muri dei pregiudizi che le circondano. Sono tante le domande che maturano: Che tipi di spazio pubblico si producono nelle occupazioni? Che ricchezza potrebbero offrire ai quartieri intorno? Come vivono gli occupanti gli spazi pubblici della città? Come rendere permeabili i confini e contaminare il dentro con il fuori e viceversa? Come può entrare la città preservando le caratteristiche di città altra di questi luoghi?
Ne discutono gli abitanti di tre occupazioni - Metropoliz, Tempesta e Porto Fluviale – insieme a Pidgin City, gruppo di ricerca attivato dal Dipartimento di Studi Urbani di Roma Tre, con ricercatori di diverse Università.


Programma della giornata:

09.30   Introduce i lavori Francesco Careri
09.40   Pidgin Makam. Installazione in forma di tavolo dei nove cubi realizzati a Metropoliz dagli studenti e presentazione della Stakeholder Analysis. A cura di Maria Rocco, Giorgio Talocci e degli studenti del workshop “Pidgin Makam”*
10.00   Abitare meticcio, dal condominio alla città e ritorno. Storie di convivenza, di spazio pubblico e di città, raccontate dagli abitanti delle occupazioni:
            - porto fluviale (Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa)
            Intervengono: Elkebira Adoud, Roberto Suarez, Rider, Giulia Bucalossi, Margherita Pisano
            - tempesta (Action)
            Intervengono: Khadija Ouahmi, Sofia Sebastianelli
            - metropoliz (Blocchi Precari Metropolitani e Popica Onlus)
            Intervengono: Lucica Constantin, Irene Di Noto, Guendalina Curi, Andrea Valentini      
12.00   Pidgin City. Interventi, dubbi e domande del gruppo di ricerca interdisciplinare Pidgin City: Francesco Careri, Nick Dines, Adriana Goni Mazzitelli, Enrica Rigo, Ilaria Vasdeki, Piero Vereni
13.20   Fabrizio Boni e Giorgio De Finis annunciano il progetto del film “Space Metropoliz
13.30   Chiude i lavori Maria Vittoria Tessitore

* Workshop Pidgin Macam, filiera “architettura e società” del Laboratorio di Progettazione Architettonica 1 LMPA, svolto nel novembre 2010, in collaborazione con gli abitanti di Metropoliz, Blocchi Precari Metropolitani, Popica Onlus, Laboratorio Tipus, Atelier Danza Montevideo, Cantieri Comuni, Associazione Michele Testa, Associazione Tor Sapienza in Arte. Docenti: Francesco Careri con Adriana Goni Mazzitelli e Miguel Fascioli. Lezioni di Mauro Gagiotti, Nicola Marcucci e Viviana Petrucci. Coordinatori: Maria Rocco, Giorgio Talocci, Hector Silva, Andrea Valentini, Maria di Maggio, Camila Kuncar.

Fase di approfondimento, genn-feb 2011, coordinata da Maria Rocco e Giorgio Talocci. Studenti 9 cubi: Cristina Ciccone, Laura Criscuolo, Lorenzo Catena, Francesco Cusani, Onorato Di Manno, Clara Dionisi, Alessandra Romiti, Flavio Graviglia, Matteo Parenti. Studenti stakeholder analysis: Alice Ampolo, Simone Camilletti, Giulia De Rossi, Sara Di Rosa, Susanna Fagiotti, Michela Fresiello, Valeria Lollobattista, Francesca Micco, Luca Pennelli, Guido Pederzoli, Alessandra Schmid, Alessandro Toti, Raffaele Trabbace, Pablo Vasquez. (http://espaciopidgin.blogspot.com)



INTERVENTI: (testo sbobinato ed editato da Adriana Goni Mazzitelli)

Francesco Careri:
_ lavorare su uno spazio dove sbagliare insieme tutti quanti, deliberatamente per diventare insieme qualcosa altro. Quello che noi pensiamo che chi arriva oggi deve venire qua e prendere i nostri costumi perché senno sbaglia la nostra identità, invece chi arriva ci aiuta a sbagliare, ci toglie dalla paura di sbagliare anzi ci aiuta a sbagliare, e finalmente sbagliamo ed iniziamo a diventare qualcosa di altro, chi arriva ci può aiutare a cambiare, è questo spazio del cambiamento quello che ci interessa.

_ il tema di oggi sono le occupazioni e spazio pubblico, vorremo ragionare insieme a voi su questi due termini. Dal 99 abbiamo occupato a campo boario dove c’èra giò l’occupazione del Villaggio Globale, Ararat. Nel 99  c’erano diverse comunità i kurdi inisieme a noi, i calderasha che oggi stanno alla romanina, i senegalesi, marocchini, tunisini, moldavi, rumeni. Tra tutte queste diverse comunità non esistevano dei confini, i confini c’erano ma erano impalpabili,non c’erano delle barriere tra i rom kalderasha non avevano ancora una recinzione in torno a loro, ma uno  a un certo punto capiva che di essere entrato a casa loro. Magari anche a seconda delle diverse ore dal giorno, di giorno uno arrivava fino a sotto la rullote e magari alla sera sapevi che se ti trovavano li eri indesiderato. Questa questione dei confini è uno dei temi che vorrei mettere sulla tavola, non per dire che i confini vadano annullati,  se i confini ci sono ci sarà un motivo, quindi forse è bene capire a cosa servono, conoscerli, forse e bene capire a che ora servono se servono sempre, forse alcuni confini sono stati superate e ne possiamo fare a meno, ne possiamo fare a meno in certi giorni e non in altri della settimana, in certe ore del giorno e della notte.

Insomma come gestire l’ingresso della città e l’uscita. Uno dei temi ricorrenti  nelle occupazioni è il cancello aperto o il cancello chiuso. Forse può essere aperto e chiuso, dipende quando e dove, va gestita questa apertura. Forse la città può avere degli spazi dentro, e questo è bene perche legittima l’occupazione, da servizi al quartiere per cui il quartiere è invitato ad entrare e ne trae vantaggi.

Ragioniamo su come le occupazioni stanno dentro la città, su come la città entra dentro, su come voi concepite la città, parlando con Kadija, diceva quando noi andiamo in piazza, e li ho chiesto qual è la piazza per voi, quella del quartiere, un cortile interno? No per kadija la piazza è dove si va a protestare. Mentre uno pensa che sia la piazza del quartiere la fuori, ci vediamo in piazza. Questo fatto che si riconosca la piazza come luogo di auto rappresentazione, presentazione di se, conflitto, forse è l’introduzione di un nuovo qualcosa. M’interessa capire i termini le parole che usate come le sentite, proprio quelle dello spazio pubblico, la strada, la piazza, la stazione….

Ci interessa il passaggio graduale dal domestico all’urbano, dalla casa, dallo spazio che c’è tra una casa e l’altro per cui il pianerottolo, ad uno spazio un po più largo, al posto dove s’incontra con tutti forse a un certo orario, che diventa un luogo condiviso da una certa comunità, poi ci sarà probabilmente dei luoghi condivisi da più comunità che abitano gli spazi, fino ad uscire del cancello nella città, come voi concepite la città.

Roberto Suarez_ peruviano, 40 anni, Sono lieto di essere qui per poter costruire qualcosa che ci possa servire in forma applicativa ai percorsi che ognuno di noi fa. Per cominciare vorrei dire, che ad un semplice sguardo il titolo città meticcia mi risulta particolare. Da noi in lingua spagnolo si parla sulla provenienza della persona sui suoi tratti etnici,[1] ma dopo in Italia mi hanno detto che in lingua italiana, questo temine non usato tanto con gli esseri umani ma di più con gli animali. Ma oggi stando qui capisco che questa parola ha un altro significato e se come ogni parola dipende del suo contesto culturale si può usare cosi.
La storia dell’occupazione di Porto Fluviale, il percorso di lotta spiega il rapporto che c’è tra di noi, si è stabilito, poi questo è maturato e continua ad evolversi per progettarsi al quartiere. Quando siamo arrivati, questo posto che è di proprietà pubblica, appartiene al Ministero dell’aeronautica militare ma con il cosi dettò federalismo demaniale  sta passando al Comune, abbiamo una vertenza aperta. Noi quando siamo arrivati li era un posto abbandonato da anni, inagibile, coperto di polvere, di terra morta, servizi inservibili, eravamo all’incirca 250 nuclei famigliari, tra single, nuclei di 3 e 4 membri. E allora la necessità fisica, logistica di poter rendere il posto vivibile , funzionate, a fatto si che ci mettessimo al lavoro. Prima abbiamo iniziato con i servizi igienici, erano 3 o 4 che funzionavamo più o meno, gli altri non funzionavano, stiamo parlando di 400 persone. Abbiamo fatto questi lavori tutti insieme, tutti noi provenienti di diversi paesi, sia dall’est d’Europa che dal nord africa la zona magrebina, il Sudamerica, e anche italiani, in minoranza, che avevano una realtà precaria complessiva. Noi nel primo tempo abbiamo istituito una assembleare per poter risolvere i problemi quotidiani come organizzarci con il lavoro e con il picchetto, perché avevamo occupato un posto pubblico e quindi era da aspettarsi che ci fossero uno sgombero. I primi tempi sono stati molto duri, perché ci siamo trincerati li, senza uscire per settimane, sono passati da allora ormai 8 anni, l’occupazione è iniziata nel 2003. Tra qualche settimana faremmo il nostro 8 anniversario. Vi invitiamo  a stare con noi a festeggiare, sarà la prima o seconda settimana di giugno. Perché la struttura assembleare, che per voi non è nuova viene degli anni 70 o anche prima, ci ha servito quale palestra per poterci conoscere e per limare le nostre asprezze, visto che tutti noi avevamo un bagaglio culturale molto diverso, molto vario, e quindi quello che era normale per uno per l’altro non lo era, e nella pratica quotidiana la convivenza si rendeva proprio difficile per questo.

Abbiamo poi diviso gli spazi a seconda della densità  famigliare di ognuno dei nostri nuclei, e dopo la lotta più o meno di 3 , 4 anni siamo arrivati ad un punto della vertenza in cui abbiamo potuto dire  adesso vogliamo e possiamo fare molto di più, e abbiamo incominciato a fare i lavori più massici, che riguardassero non soltanto il minimo indispensabile, perché prima stavamo in uno stanzone, senza divisioni, senza intimità, senza privacy, come lo chiamano qua. Abbiamo cominciato a rendere ognuno di noi, sempre su un piano più o meno generale, individuare i nostri spazi, renderli personali a seconda dei nostri propri bisogni famigliari, questo lo abbiamo fatto negli anni,ma non ci rendevamo conto di una cosa; che questo processo a noi ci stava trasformando, quindi noi trasformavamo il luogo fisicamente e il luogo ci trasformava a noi, ci modificava. Perché noi stavamo crescendo in consapevolezza, prima il problema del tetto. Poi una volta che avevamo risolto questo e arrivavamo a delle mete concrete, noi ci sentivamo più forti,  e pronti per fare più cose, e più articolate, e questo abbiamo fatto. Tutti questi anni ci hanno portato anche a rendere abitabili e funzionali certi posti all’interno di Porto Fluviale che durante anni non avevamo ne anche in uso abbiamo trasferito il posto assembleare che adesso è più grande ed è più vicino all’ingresso, adesso abbiamo una piccola palestra, proprio palestra, e tra qualche settimana apriremo un posto che si progetta al quartiere. Perché questa è l’idea nostra, questo percorso che abbiamo fatto ci ha fatto capire, concludere che non basta il tetto sulla testa noi dobbiamo agire, perché nel frattempo ci siamo allenati per diventare cittadini e agire come tali. Abbiamo creato una rete di rapporti tra di noi, che non è che annulla le nostre differenze e i nostri disaccordi, semplicemente gli abbiamo messo un po’ da parti, siamo arrivati a degli accordi. E allora noi stiamo già per aprire al quartiere questo posto che sarà di socializzazione con il quartiere, perché vogliamo che il quartiere e noi possiamo integrarci, sempre a livello cittadino, per potere contare di più, soprattutto riguardo alla    governance di questa città e lasciare che non sia cosi verticale ma che sia più trasversale e orizzontale, dove il nostro parere, il parere dei vicini non sia chiesto alla fine di un processo che è stato deciso dal alto prima, ma dall’inizio.

Sono Kadija di Action , occupazione Tempesta, via antonio tempesta, ex-asl, a tor pignatara.
Quando si occupa un posto s’inizia a lavorare tutti insieme, da compagni, non esiste il mio vicino di casa che si chiama vicino di casa ma compagno di vita in quella fase che io sto la dentro. Detto questo volevo dire come si entra cauti in una zona e come si forma il rapporto con il quartiere. Quando Tempesta ha entrato, ha presso questo posto, ha comunicato questo fato al quartiere con dei volantini per dire chi siamo, da dove siamo venuti, perché abbiamo occupato e chi sono soprattutto le famiglie che stanno dentro, perché il quartiere deve ovviamente sapere il vicinato chi è, perché il vicinato è impaurito e quindi trovando nella casella della posta che chi è venuto non è un intruso ma è una persona che sta lottando per un diritto negato. Perché il diritto alla casa e al lavoro vuoi dire una dignità, e quindi che il vicino è venuto per acquistare  lottando una dignità di sopravivenza. Perché noi andiamo a prendere le ville , andiamo a prendere gli spazi pubblici che sono abbandonati, e lavoriamo e facciamo di tutto per essere riconosciuti come esseri umani, non vuoi dire che uno che non ha la possibilità di andare a vivere in una casa non ha il diritto di sopravivenza dentro un posto abbandonato.
Il nostro spazio sociale, che abbiamo presso un palazzo di 3 piani, il piano terra lo abbiamo utilizzato per creare questo rapporto con il quartiere, abbiamo usato un posto con un nome QUIEBRA LEY, vuoi dire spacca pietra, vuoi dire spacca legge, in spagnolo, che noi lottiamo per avere un diritto che ci appartiene. Abbiamo aperto un aula per corsi, che abbiamo cercato di dare al quartiere quello che lo stato, il comune, non da a quel quartiere, abbiamo dato corsi di arabo, di francese , d’inglese, tutto gratuitamente. Il cancello si apre, per ospitare a questa gente entrare a conoscere tramite una cultura nostra, perché una insegnate di lingua madre inglese, araba (che sono io) e anche una insegnante di lingua italiana. Questo spazio noi lo utilizziamo sempre di pomeriggio dopo che i bambini escono da scuola, che le mamme ci portano i bambini , dalle 16 alle 19, quindi un orario accessibile, abbiamo anche dialogato con le mamme qual’era l’orario che li poteva essere più utile, che potevano essere liberi. Poi abbiamo aperto un ufficio legale dove gli stranieri hanno assistenza legale per motivi o di lavoro o di permesso di soggiorno, abbiamo seguito la storia di Rosarno, e abbiamo ospitato la gente di Rosarno, siamo andati a cercarli a termini, li abbiamo ospitato e abbiamo portato la loro voce alla piazza. La piazza che per noi per me è i miei compagni è il posto dove si lotta, noi siamo persone, siamo gente che lottiamo per ottenere. Non conosco io la parola trovi le cose facili, perché niente è facile, per ottenere un diritto si lotta, in tutti i posti, ma per ottenere un diritto esco alla piazza per fare capire a livello pubblico, quello che questo stato non mi sta offrendo, ma che è un diritto mio.
Noi ospitiamo anche persone che automaticamente hanno problemi perché il loro permesso di soggiorno è stato negato, per qualche motivo u altro, anche se ha un datore di lavoro che lo sta sfruttando, non li riconosce i suoi diritti, e questo ufficio legale è aperto il giovedi dalle ore 16 alle ore 19, con altri miei compagni che seguono l’ufficio per gli stranieri.
Poi abbiamo aperto un piccolo bar, che noi lo abbiamo chiamato un reparto sociale aperto all’esterno, dove tu puoi prendere un caffetino, con una cosa minima, con 30 centesimi, ma il bello è che tu entri in uno spazio che è stato abbandonato ed è stato creato un bar che tu entri in una occupazione e si mangi il pane è stato fatto da un’araba, e se mangi un brioche è stato fatto di un’altra nazione, e anche la cucina peruviana ed ecuadoriana c’è l’abbiamo dentro, perché la gente, gli stuzzichini li fanno dentro casa e li portano giù. E quindi assapori quella cosa che non c’è fuori, chi entra da noi assapora una cosa diversa, che non è all’esterno, è qualcosa di diverso, e nel frattempo ti giochi una partita di pin pon, perché lo abbiamo messo noi.
Lo ammetto quando siamo entrati giù era tutto rotto….noi abbiamo creato questi spazi, sono 3 stanze dove abbiamo messo anche una palestra, e questa palestra è gratuita , chi viene dice poso utilizzarla, noi diciamo prego puoi usarla. Non si va ai piani sopra perché ci sono gli abitanti, ma il piano di sotto  è aperto, se chiama alla porta un vicino di casa è mi dice ho sentito poso entrare, prego puoi entrare, tu mi vuoi conoscere io ti voglio conoscere. È nata una cultura interculturale, e noi siamo venuti in Italia per trasmettere quella cosa che secondo me sta in Marocco , in Perù ci sta, in tutto l’altro mondo che come lo chiamano il terzo mondo, ma che qua è sparito, quel rapporto umano, quel vicino di casa che non può dormire affamato. Perché se io faccio un piato di pasta so che quel vicino mio ha o non ha, e il piato viene diviso. Non essiste che un compagno si dorme senza un piato di pasta, perché io lo sento in me, se so che non hai lavoro quando paso dico tutto a posto? So che hai mangiato e che non hai mangiato, c’è quel dialogo aperto, con un compagno che sta insieme a me lottando gomito a gomito.

Enrica_ lo spazio al piano terra da chi è frequentato? Dalle mamme di Torpignatara. ?

Kadija_ le lezioni di arabo erano molto richieste, le ripetizioni anche quelle d’inglese. O ad esempio la mamma che viene ad accompagnare il figlio che gioca al pin pon e lei si prende il caffè, e prende anche il pane, e ci mettiamo a parlare, il pane come lo fatte? E della cultura nostra.

Lucica_ buon giorno a tutti, sono qua per rappresentare la parte dei rom. È un po’difficile capire la parte dei rom. Noi siamo da parte perche ci negavano i diritti da per tutto, e siamo qui tutti per lottare, per i nostri diritti, e anche per gli altri, che vivono insieme a noi in quel posto. Vogliamo fare vedere alle persone che non ci conoscono, che anche noi siamo delle persone, che non siamo senza una vita, che vogliamo andare anche noi avanti. Cmqe siamo troppo indietro perché non capivamo tutto, ma vogliamo imparare e chiedere a voi questo aiuto. Diciamo che non siamo tutti intelligenti come gli altri, perché ci hanno negato tutto, ci hanno negato questi diritti, e per questo lottiamo. Anche per il diritto alla casa perché a noi ci viene negato tutto, non ci danno un diritto ad avere un documento, il dottore di famiglia, non c’è l’abbiamo. Questo ci fa lottare ed andare avanti con l’altra gente. Vogliamo lottare soprattutto per la casa, perché noi siamo venuti ultimi in quel posto, e noi vogliamo lottare insieme a tutti quanti che abitavano da prima per la casa. Ringrazio i ragazzi e le ragazze che mi hanno seguito perché mi hanno fatto capire che tutto s’impara, non si prende da solo, che possiamo imparare ancora altre cose. Vi parlo un po’di me ad esempio per farvi capire come vanno le cose. Prima quando sono venuta a Metropoliz non parlavo niente in italiano. Se avevo bisogno di qualcosa rimanevo zitta perché non capivo come esprimermi, come chiedere le cose. E poi sono venuti questi ragazzi che sono qua presenti, Francesca, Grazia, Carla, Osvaldo, che mi hanno dato un grande aiuto, per scrivere, leggere e anche parlare, li ringrazio per queste cose che mi hanno offerto loro, e ancora studiamo in quel posto, ed è una casa, una scuola, tutto per noi.

Non tutti noi pensiamo uguali, una parte è andata avanti per pensare a queste cose, noi abbiamo pazienza anche per gli altri per guardare a noi, e per seguire a noi loro, per questa cosa dobbiamo avere, pazienza, anche noi per imparare gli altri ugual.

Ryder_ abitante del Porto Fluviale, mi domando come sarebbe stata l’america senza nessun abitante, sa? Quando il professore ha parlato cosa sarebbe stato vincere un confine per me, il confine per me è vincere il confine sono vincere tutti gli ostacoli della vita, tra una nazione e un’altra, fare una sola idea, un solo ideale una sola meta, e questa per me è vincere un confine per me è convivere l’europeo, l’asiatico il sudamericano e parlare una sola lingua sa? Quando parla di meticci, noi come occupanti conviviamo con tanti realtà di differenti nazioni, l’africano ha la lingua araba, noi lo spagnolo, voi l’italiano, l’altro l’inglese, è difficile imparare tutte queste lingue in un momento, pero con il passare del tempo non è necessario aver imparato una stessa lingua, pero si impara un linguaggio unico che è la convivenza e portare avanti, come in questo caso il diritto ad abitare. Ma non soltanto il diritto ad abitare ma a portare avanti una vita per bene, per tutta la nazione e per tutta la famiglia di ognuno di noi. Io ad esempio arrivato qua ho lasciato il mio bambino piccolo al mio paese, e poi l’ho portato qua quando ho iniziato a lavorare, ho trovato gente per bene qua. La differenza tra di noi è che nei primi tempi eravamo senza documenti, abbiamo dovuto lottare per ottenere i documenti. Abbiamo dovuto lottare con gli affitti perché ci chiedevano i documenti, o prendevano un affitto in nero e ci facevano pagare tanto soltanto perché non avevamo i documenti.
Allora, noi dovevamo avere un tetto sulla nostra testa para darla alla famiglia, poi arrivava il momento in cui noi non c’è la facevamo a pagare quello che ci chiedevano, e abbiamo dovuto recurrir alle occupazioni. Che nei nostri paesi si chiamano invasioni, pero che nelle nostre nazioni, non terzomondista, un po povere in comparazione con il livello d’Europa, non si occupano spazi abbandonati come in questo caso la caserma e tanti altri locali abbandonati, che a me veramente mi fa impatto vedere tanti spazi vuoti abbandonati quando ci sono tanti bisogni di occupare questi spazi e renderli utili l’indomani.
Invece nei nostri paesi si occupano grandi spazi di terra e bisogna lottare con il proprietario e con le autorità, e a volte risultiamo invasori, od occupanti che andiamo a finire al cimitero.
Noi abbiamo reso vivibile un posto come il posto fluviale, e dentro ci sono tante idee grandi, perché ci sono i muratori, gli idraulici, ci aiutiamo l’uni con gli altri per rendere molto vivibile questo posto. Ci sono tanti architetti, ma non perché hanno un titolo, senno perché hanno idee per rendere vivibile questo posto, e dare una vita più onesta a tutti, e pure all’Italia.

Kibirha del Porto Fluviale_ sono marrochina, mi scuso se non parlo molto bene l’italiano.
Io non conoscevo prima cosa era una occupazione. Mi ricordo 7 anni fa, il primo giugno del 2003, che c’era anche la nostra amica Giuglia e altri italiani con noi, e mi ricordo una grande paura per entrare dentro questo posto. Perché prima volta che lo vedo, non so se entro o se viene la polizia, perché una cosa che per me è fuori….. è allora sono stata li di più da una settimana, con il mio bambino, che è un bambino dawn, con una grande paura. Era un posto pieno di polvere, perché era da tanti anni che era stato chiuso li. Con il tempo è andato tutto bene, pero abbiamo fato tanto lavoro dentro. Oggi siamo tutti felici perché, io ho passato dentro di una prova che non ho mai pensato. Siamo amici, siamo una famiglia unica, prima mi sento (sentivo) straniera, io adesso non mi sento straniera perché sto con dentro la casa mia, ho capito tante cose che prima non lo capisco. Ho cominciato a parlare un po’ la lingua italiana. Sento e non lo so come rispondo. Perché io sono una mamma casalinga, non ho ne anche studiato tanto. Nella nostra occupazione, se sta una mamma sotto, guarda tutti i bambini, non è perché questo è il mio, l’altro è dell’altra mamma non m’importa niente. Dei nostri bambini dentro noi siamo felici perché quando ci sono le nostre feste noi pensiamo a tutti, sono nati anche tanti bambini li, dal 2003 fino adesso il 2011, abbiamo tanti bambini che sono nati li. La bella parola che io sento da questi bambini è la “zia”…. È vero che c’è la mamma, ma noi donne che siamo li, anche delle altre nazionalità siamo le zie. Allora se il bambino gioca cade e se fa male, mi chiama zia, se ho il pane mi dice zia ho fame, questa è una bella cosa per una mamma.






[1] Mestizo in spagnolo significava un non puro sangue in genere peggiorativo, per parlare di figli d’indigeni con bianchi(spagnoli o portoghesi)

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