07/12/13

Caino, Abele e il “Progetto Roma”

di Francesco Careri
in corso di pubblicazione in un'opera in memoria di Mario Manieri Elia

C’è un testo, tra i tanti scritti da Mario Manieri Elia su Roma, che mi sembra essere centrale nella sua idea della Città Eterna. Il suo titolo è “Il Progetto Roma” e si trova nel primo numero di Topos e Progetto, quello dedicato al Topos come Meta. Già nel titolo del volume è chiara la volontà di mettere insieme due idee di spazio apparentemente contrastanti, lo spazio dello stare e lo spazio dell’andare, la città sedentaria e la città nomade, Caino con Abele. L’articolo comincia proprio da qui, dai due fratelli biblici, Caino agricoltore sedentario, che sa usare le armi e costruire le città e Abele pastore nomade e pacifico “pellegrino su questa terra”, come scrive il berbero Sant Agostino. Manieri si avventura con loro nella rilettura della “Città di Dio” di Sant Agostino e trovando l’archetipo e soprattutto la nascita del Progetto Roma come Città capitale del mondo occidentale cristiano. 



Scrive Mario Manieri: “All’alba del Medioevo nel testo agostiniano si allude a una basilare dicotomia: la ‘città terrena’ fondata dall’uomo nei limiti della sua azione autonoma e della sua capacità di abitare – cioè del suo esserci nel mondo a far la propria parte nella creazione - ; e la ‘città celeste’ contesto immateriale nel quale è destinato a muoversi l’homo viator, in quanto parte della cercante schiera degli eletti, le cui vicende sono narrate nelle scritture.” [1]
Secondo Manieri dunque, Agostino costruisce le basi di un teorema teologico che si realizzerà lungo il corso dei secoli successivi risignificando i luoghi della città imperiale, fino a trovare la sua conclusione nella costruzione della Piazza San Pietro di Bernini. La visione di Agostino è “un manifesto ideologico, secondo un preciso uso pubblico della storia che giunge a proporre un decisivo programma per Roma; un Progetto, cioè, che si pone come perno di una svolta epocale, fondando cultura occidentale identificata con la tradizione storica cristiana. (…) Abele resuscitato, viene cosi ad abitare da Caino; Numintore da Amulio; Remo da Romolo. (…) l’incontro cioè tra l’archetipo biblico, madido del sangue di Abele (e poi di Remo), divenuto nel mondo pagano, ‘maschile’, stabile e monumentale della Città Aeterna; e il grande, periodico evento erratico del pellegrinaggio.”[2] Il piano urbanistico della città dei papi sarà d’ora in avanti la trasformazione della città antica romana in una città da attraversare per i pellegrini e i viandanti, una strategia di riscrittura urbana di altissimo valore simbolico ed economico. Questo progetto attraversa diverse fasi: le basiliche costantiniane poste fuori dalle mura, nelle principali vie di accesso, in modo da offrire ai pellegrini un segno inconfondibilmente cristiano prima di incontrare dentro le mura quelle vestigia pagane impossibili da occultare; in seguito la restaurazione altomedioevale della Città Santa come ‘Città di Pietra’, che ricompone i nuovi impianti religiosi con i monumenti pagani; la serie di processioni spettacolari organizzate da Gregorio Magno nel 590 per esorcizzare la peste e che dalle basiliche costantiniane arrivano in San Pietro attraversando ponte Elio. Luogo centrale questo, posto sotto il controllo del nuovo Angelo posto in cima al vecchio Mausoleo di Adriano che sembra riporre la spada nella fodera, in segno di pace: il ponte tra le Due Città, il transito tra Campo Marzio e il Vaticano, tra città romana e città cristiana, tra città Terrena e città Celeste, tra la città dell’amor sui e quella dell’amor Dei. Una volta fallito il progetto dei papi avignonesi e conclusesi le crociate verso la terra Santa, “si chiude di fatto un’epoca: quella avventurosa e confusa dei pellegrinaggi di bande armate – difficilmente riferibili all’archetipo ‘pellegrino’ e pacifico di Abele (…). E apre l’era degli Anni Santi, indetti e organizzati dalla Chiesa romana, dispensatrice di ben più affidabili indulgenze da offrire ai fedeli, uomini ma anche donne, questa volta, disarmati e portatori di energie positive da tutto il mondo.”[3] Bonifacio VIII indice il primo dei grandi Giubilei e afferma Roma come la Meta dei pellegrinaggi cristiani. Di qui in poi la città organizzerà la sua struttura urbana come una “macchina per l’accoglienza”, si appresta ad accogliere il ciclico ritorno in città di Abele, il nomade, l’Altro, lo straniero. Si passerà dalla “strutturazione risimboleggiante e pervasiva tentata nel tardo cinquecento, alla spettacolarizzazione discontinua barocca (…) che con Bernini, grande regista della messa in scena del trionfo della fine di ogni conflittualità, trova un acme nell’eccezionale sequenza semantica che attraversa l’area vaticana (…) e il progetto Roma, qui, sembra chiudersi in bellezza”[4].

Fin qui Manieri Elia. E devo dire che spesso, durante le lezioni al suo Master, abbiamo parlato dei due nostri amici biblici, Caino e Abele. Mi ha sempre colpito il fatto che le loro iniziali C ed A sono proprio quelle del KA, lo spirito dell’eterna erranza, un simbolo antichissimo, compagno di viaggio dei primi uomini del paleolitico tra i labirinti di una natura ancora ostile. Il ka, il simbolo dell’eterna erranza dal mondo dei cacciatori-raccoglitori si era poi trasferito nell’universo nomade delle transumanze pastorali e dando alla luce – secondo Giedion - alla intera storia dell’architettura in pietra, dalle caverne, ai monumenti megalitici, ai templi egiziani[5]. Nei geroglifici egiziani il simbolo del ka è raffigurato come una lettera U formata da due braccia alzate con i bicipiti ingrossati e le mani aperte, un’immagine che collega l’antica postura dell’uomo “orante” disegnato nelle incisioni rupestri delle caverne, con l’atto regale del faraone nel ricevere l’energia divina camminando con le mani alzate. Una immagine che combina la forma del saluto con quella del camminare.

Ma ritorniamo a Caino e Abele. In realtà non è solo Abele il pellegrino, ma nella religione giudaico cristiana, sembra essere proprio Caino la nuova personificazione del ka primitivo. Il nome Caino contiene la primitiva radice ka da cui deriva la radice ebraica –kaw, la strada primitiva, l’antico cammino. E Caino incorpora l’erranza vissuta come punizione e il saluto come suo antidoto per l’accesso alle terre straniere. Mi ha sempre colpito quel passaggio della Bibbia in cui, scacciato dall’Eden per il suo peccato fratricida, Caino sembra avere come sua unica preoccupazione quella del come incontrare lo straniero nell’erranza:

 «Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere». Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato».[6]

Ora un fatto straordinario è che a Caino è collegata la nascita del primo segno nella storia dell’umanità: quello che permette agli uomini di attraversare territori stranieri e di incontrarsi con l’Altro. Il passo della Genesi si può interpretare sia nel senso che il Signore incide un marchio su Caino - seppure nell’iconografia di Caino questo marchio non sia chiaramente rintracciabile - e sia che il Signore “insegni” a Caino un segno da fare verso lo straniero, una modalità con cui incontrare l’altro e instaurare una relazione pacifica e non violenta: il saluto non belligerante, le mani alzate in senso di resa, di disarmo e di pace e forse lo stesso atto di amare, di abbracciare e di accogliere. Quella di Caino e Abele, dell’agricoltore sedentario che uccide il suo fratello pastore nomade, è anche la storia del primo omicidio commesso dall’uomo, della prima incapacità di risolvere pacificamente un conflitto. Sembra quasi che l’omicidio sia stato commesso a causa di un’immatura capacità di relazione con l’Altro e che questo primo fallimento della relazione umana sia stato colmato da Dio insegnando a Caino come interagire in modo più maturo nella soluzione dei conflitti: il signore insegna a Caino il salutare nell’erranza, insegna un comportamento verso lo straniero, un gesto verso l’Altro, un attitudine pacifica e insieme una chiave per passare di territorio in territorio, per continuare a navigare nel vasto mare dei deserti affrontando i pericoli e i conflitti a cui andrà incontro. Sembra quindi che il pellegrino Abele, subito dopo la sua morte, si sia in qualche modo “reincarnato” in Caino, sia andato ad abitare insieme a lui in unico corpo pellegrinante.

Forse per le mie discendenze sarde o per le mie ascendenze erratiche ho sempre pensato che questo segno ha la sua patria in Sardegna, che qui sia stato venerato e declinato in diverse forme. Come ho accennato il ka di Caino (e Abele) si trova in molti dei graffiti rupestri della Sardegna paleolitica come “orante”, diventa corna del Toro Api inciso nelle domus de Janas del primo neolitico ed è scolpito sui menhir sardi come segnale per non perdere la via. Ma soprattutto, se visto in pianta e quindi inciso sulla terra, è il disegno delle prime complesse architetture megalitiche sarde, le Tombe dei Giganti, architetture che di fronte alla tomba a corridoio, hanno uno spazio a semicerchio. Una specie di esedra a cielo aperto che sembra voler andare incontro ai pellegrini, un luogo di incontro che accoglie i pellegrini. E infatti quello che mi sorprende di più rileggendo Mario Manieri e il suo Progetto Roma, è che il simbolo del ka potrebbe essere interpretato come un abbraccio, lo stesso abbraccio non belligerante con cui Gian Lorenzo Bernini disegna la Piazza San Pietro per accogliere i fedeli: Abele il pellegrino nomade torna nelle braccia del segno di Caino. “Abele resuscitato, viene cosi ad abitare da Caino” direbbe Manieri, il Progetto di Sant’Agostino si è veramente compiuto con Bernini. Di questo però con Mario non ne avevo mai parlato.




[1] Mario Manieri Elia, Il progetto Roma, “Topos e Progetto”, Fratelli Palombi, Roma 1999, p.17.
[2] Ibidem, … p.18.
[3] Ibidem, … p.23.
[4] Ibidem, … p.28.
[5] Sono molte le statue del faraone che cammina con in testa il copricapo con le mani alzate del ka. E secondo Giedion nel II millennio, la sala ipostila del tempio di Amon Karnak in Egitto, è una architettura costruita per l’erranza del ka e "non è un posto di raccoglimento per una congrega di devoti; né un luogo di riposo; è semplicemente un luogo di passaggio, il più colossale che sia stato mai concepito". (Sigfried Giedion, The Eternal Present, vol. II "The Origins of Architecture", London 1964).
[6] Genesi 4, 14-15 

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