07/12/13

Walkscapes Ten Years Later

di Francesco Careri
postfazione alla nuova edizione spagnola e portoghese di Walkscapes, Editorial Gustavo Gili

Ho pensato diverse volte di scrivere un secondo libro sul camminare o di aggiornare Walkscapes con nuovi capitoli sugli artisti che attualmente camminano. Se non l’ho fatto è perché credo che il libro funziona così com’è e perché non credo di saper fare molto di meglio su questo tema. Il testo di questa nuova edizione dunque è esattamente uguale all’originale, non ho cambiato una virgola, c’è qualche nota in più visto che le avevo già aggiunte nell’edizione italiana e c’è qualche immagine in meno perché alcune mi sembravano superflue. Ho invece aggiornato la bibliografia perché negli ultimi anni sul tema è stato scritto molto, ed ho pensato di scrivere questa breve postfazione che - forse in modo troppo autobiografico e introverso - cerca di raccontare come io stesso ho interpretato quelle ultime parole scritte alla fine del libro:

Andare all'avventura a New Babylon può essere un metodo utile per leggere e trasformare quelle zone di Zonzo che negli ultimi anni hanno messo in difficoltà il progetto architettonico ed urbanistico. Grazie anche agli artisti che l'hanno percorsa questa città è diventata oggi visibile e si presenta come uno dei più importanti problemi irrisolti della cultura architettonica. Progettare una città nomade sembrerebbe essere una contraddizione in termini. Forse lo si dovrebbe fare alla maniera dei neobabilonesi: trasformarla ludicamente dal suo interno, modificarla durante il viaggio, ridare vita alla primitiva attitudine al gioco delle relazioni che aveva permesso ad Abele di abitare il mondo.


In dieci anni sono successe molte cose: tre figli da cui imparo quotidianamente a giocare col mondo, il posto all’università dove tengo un corso interamente camminando, la casa manifesto costruita insieme ai discendenti di Abele e poi bruciata da Caino e dai sui amici antizigani e il Laboratorio di Arti Civiche con cui porto avanti i progetti collettivi che prima facevo con Stalker, e che idealmente continua a camminare lungo la via di Stalker.

Dieci anni fa, quando Daniela Colafranceschi e Monica Gili mi avevano invitato a scrivere il libro non mi sarei mai immaginato che potesse arrivare a sei ristampe ed essere rieditato in questa nuova forma. Semplicemente non avevo idea di cosa volesse dire scrivere un libro, mettere nero su bianco affermazioni che poi mi sarei ritrovato a confermare, discutere, argomentare, difendere. Ma soprattutto non avevo idea che un libro potesse farmi viaggiare cosi tanto. Walkscapes, in particolare in Sudamerica, ha avuto una inaspettata fortuna, e sono stato invitato a conferenze, seminari e soprattutto a camminare con artisti, architetti, studenti, cittadini. Attraversando Bogotà, Santiago de Chile, Montevideo, Sao Paolo, Salvador do Bahia, Talca, ho capito che non so camminare nella quadricola coloniale e che per andare in transurbanza devo cercare i punti in cui la griglia si rompe, perdermi lungo i fiumi, circumnavigare le nuove zone residenziali, immergermi nei labirinti delle favelas. In Sudamerica camminare significa affrontare molte paure: paura della città, paura dello spazio pubblico, paura di infrangere le regole, paura di appropriarsi dello spazio, paura di oltrepassare barriere spesso inesistenti e paura degli altri cittadini, percepiti quasi sempre come potenziali nemici. Semplicemente, il camminare fa paura e quindi non si cammina più, chi cammina è un homeless, un tossico, un marginale. Il fenomeno antiperipatetico ed antiurbano è qui più chiaro che in Europa dove mi sembra sia ancora solo in via di formazione: non uscire mai di casa a piedi, non esporre mai il proprio corpo senza un involucro, proteggerlo in casa o in macchina, soprattutto non uscire dopo il tramonto, rinchiudersi se possibile in gated comunities a guardare film di terrore o a viaggiare con internet, memorizzare i consigli per gli acquisti utili a quando si cammina nei centri commerciali. Nelle facoltà di architettura mi sono reso conto che gli studenti, ossia la futura classe dirigente, sanno tutto di teoria urbana e di filosofi francesi, si dicono esperti di città e di spazio pubblico ma in realtà non hanno mai fatto l’esperienza di giocare a pallone in strada, di incontrarsi con gli amici in piazza, di fare l’amore in un parco, di entrare illegalmente in una rovina industriale, di attraversare una favela, di fermarsi a chiedere una informazione a un passante. Che tipo di città potranno mai produrre queste persone che hanno paura di camminare?

Oggi l’unica categoria con cui si disegnano le città è quella della sicurezza. Sarà una banalità ma l’unico modo per avere una città sicura è che ci sia gente per strada che cammina questo solo fatto permette di controllarsi a vicenda senza bisogno di recinzioni e telecamere. E l’unico modo per avere una città viva e democratica è che si possa camminare senza annullare i conflitti e le differenze, che si possa camminare per protestare e per ribadire il proprio diritto alla città. Da quando insegno mi sento addosso delle responsabilità in più, e ho cominciato a capire che camminare è un insostituibile strumento per formare non solo alunni ma cittadini, che il camminare è un’azione capace di abbassare il livello di paura e di smascherare la costruzione mediatica dell’insicurezza: un progetto “civico” capace di produrre spazio pubblico e agire comune. Nei miei corsi di Arti Civiche quello che cerco di trasmettere agli studenti è il piacere di perdersi per conoscere. Non è scontato, ma dà grandi soddisfazioni. Li porto dove ancora non sono andati, gli tolgo il terreno sotto i piedi e li dirotto in territori incerti. Di solito all’inizio cresce in loro uno stato d’animo di diffidenza, dubbi su ciò che stanno facendo, paura di star perdendo tempo. Ma infine, per chi resiste, cresce anche il piacere di trovare nuove strade e nuove certezze, provano il gusto di costruirsi un pensiero con il proprio corpo e un agire con la propria mente. Mettere in crisi le poche certezze appena raggiunte permette infatti di aprire la mente a mondi e possibilità prima inesplorati, invita a reinventare tutto: la propria idea di città, la propria definizione di arte e di architettura, il proprio  posto in questo mondo. Ci si libera di convinzioni posticce e si comincia a ricordare che lo spazio è una fantastica invenzione con cui si può giocare, come da bambini. Un detto che guida le nostre camminate è “chi perde tempo guadagna spazio”. Se infatti si vogliono guadagnare spazi “altri” bisogna saper giocare, uscire deliberatamente da un sistema funzional-produttivo ed entrare in un sistema non funzionale e improduttivo. Bisogna imparare a perder tempo, a non cercare la via più breve, a farsi dirottare dagli eventi, a dirigersi verso strade impervi dove sia possibile “inciampare”, magari incagliarsi a parlare con le persone che si incontrano o sapersi fermare dimenticandosi di dover procedere. Saper giungere al camminare non intenzionale, al camminare indeterminato.

Un altro passaggio è stato quello della comprensione più profonda della parola “deriva” nel senso di “progetto indeterminato” e delle sue potenzialità per la trasformazione della città nomade o meglio informale. Non solo quindi nel suo significato di “lasciarsi andare alla deriva”, di perdersi in balia delle correnti, ma nel suo significato più progettuale, come strumento per “costruire una direzione”: una “situazione ludico-costruttiva” (Debord) “da realizzare in forma di labirinto dinamico insieme agli abitanti neobabilonesi” (Constant). Quello che mi attrae della metafora marina della deriva è che il terreno su cui ci si muove è un mare incerto che cambia continuamente in base al mutare dei venti, delle correnti, dei nostri stati di animo, degli incontri che si fanno. Il punto è infatti come progettare una direzione ma con un’ampia disponibilità all’indeterminatezza e all’ascolto dei progetti degli altri. Timonare una barca a vela significa costruire una rotta e modificarla continuamente leggendo le increspature del mare, solitamente cercando le zone dove ci sono le raffiche ed evitando quelle di “piatta”, incontrando insomma nel territorio stesso e in chi lo abita, le energie che possono portare avanti il progetto indeterminato nel suo divenire: le persone giuste, i luoghi adatti e le situazioni in cui il progetto possa crescere, modificarsi e diventare terreno comune. È chiaro che se si ha un progetto determinato, questo non potrà che andare in frantumi alle prime folate di vento. Mentre un progetto di questo tipo ha sicuramente più speranze di realizzarsi.

Quanto detto ha molto a che fare con i processi creativi “relazionali” o “partecipativi”, entrambe parole fin troppo abusate dal mondo dell’arte e dell’architettura, diciamo di processi creativi che non possono compiersi se non attraverso uno scambio con l’Altro. In queste situazioni di solito si opera in due modi: o si coinvolge l’altro nei propri progetti per assicurarsi il suo consenso, oppure si annulla la propria creatività lasciando interamente all’altro il compimento dell’opera. L’interessante credo sia invece proprio il navigare tra queste due sponde, consapevoli di avere un proprio progetto creativo (anche il solo nostro desiderio di partecipare è un progetto), ma di volerlo lasciare aperto e indeterminato. A timonare sarà allora la coerenza interna tra le cose che si incontrano e quelle che si creano, tra quelle che accadono e che si fanno accadere, la continua scoperta di un ordine nascosto che vediamo nascere sotto i nostri occhi-piedi, la possibilità di costruire un senso e una storia-rotta coerente e condivisa.

Accennavo all’inizio a una casa manifesto realizzata con i discendenti di Abele, i cosiddetti “nomadi”. Si tratta di Savorengo Ker (in lingua romané significa “la casa di tutti”) realizzata insieme ai Rom del campo Casilino 900 a Roma nel luglio del 2008 e che sarebbe dovuta essere il primo passo per trasformare il campo rom in un quartiere, in un pezzo di città, forse un Sahel instabile tra nomadismo e sedentarietà. Dopo aver scritto il libro la parola “nomadismo” ha assunto per me molti altri significati, ho cominciato a frequentare chi il nomadismo lo vive sulla propria pelle a volte non per sua scelta né per tradizioni culturali, chi vi ha dovuto rinunciare e vive nell’apartheid dei campi nomadi, chi ancora cerca di abitare il mondo in piena liberà ma trova infinite barriere ai suoi spostamenti. Quella di Savorengo Ker è una storia lunga e molto complessa, forse un giorno riuscirò a scriverci un libro, intanto ci abbiamo fatto un film che vi invito a vedere in internet. Ma ciò che mi interessa dire ora è che è stata una importante tappa del “progetto indeterminato”. Il suo progetto nasce infatti non da un disegno ma da un incontro, da uno scambio reciproco di diffidenze e di paure e poi di saperi e di desideri. La sua idea, la sua forma, la sua tecnologia, la sua economia sono state continuamente discusse, a volte anche con grandi conflitti, in un dialogo continuo ed aperto tra una comunità di “nomadi” ormai costretti alla stanzialità ed un variegato gruppo di “sedentari” appassionati di nomadismo e indignati per l’apartheid che sta oggi rinchiudendo i Rom in campi di concentramento sempre più sofisticati. È uscita fuori una casa in legno a due piani, con fantasiose decorazioni balcaniche e con un progetto molto ambizioso: dire a Caino che anche Abele ha diritto di abitare nella città interculturale, e che la sua presenza è una grande ricchezza proprio perché porta con sé un conflitto millenario che mai troverà pace.

Da questo punto di vista mi sembra che la storia di Caino e Abele e il gesto del KA abbiano ancora molto da insegnare alle arti che si occupano della trasformazione dello spazio. Ne primo capitolo eravamo rimasti a quando, dopo il primo omicidio della storia dell’umanità, Dio punisce Caino mandandolo errante nel deserto. Quello a cui non ho più smesso di pensare è la reazione di Caino. La sua paura non è il perdersi ma è quella di incontrare l'Altro, teme che l’Altro lo ucciderà, la sua unica preoccupazione è come affrontare il conflitto con il diverso. La Bibbia racconta che allora Dio dà a Caino un “segno” che servirà a proteggerlo. Un marchio? Il marchio di Caino? Ho cominciato a studiare e mi sembra che questo segno non si ritrovi nell'iconografia di Caino, che invece porta con sé il bastone del viandante. Mi sto convincendo del fatto che il Signore non ha propriamente “dato un segno” a Caino, tantomeno un bastone, ma abbia invece “insegnato” a Caino a fare una cosa che non sapeva fare. Dio ha insegnato a Caino a salutare, ad andare verso l'Altro facendo “un segno” non belligerante. E sono sempre più convinto che questo saluto è lo stesso del simbolo del Ka (che poi è anche radice del nome Kaino): due braccia alzate che ti vengono incontro camminando, che vanno incontro all'altro non più per ucciderlo come Caino aveva appena fatto con suo fratello, ma mostrando le mani vuote, disarmate, inoffensive e forse protese verso un abbraccio. Sono convinto che chi ha scritto la Genesi aveva compreso che questo primo rivoluzionario atto di pace era legato al camminare ed al fermarsi. All’arte dell’erranza segue l’arte dell’incontro, quella della costruzione di uno spazio di soglia, della realizzazione di una frontiera fuori dallo Spazio e dal Tempo, in cui affrontare il conflitto tra diversi con un saluto non belligerante.

Forse è da qui che comincerà un mio prossimo libro. Si potrebbe chiamare “Stopscapes. Il fermarsi come pratica estetica”. Mi piacerebbe parlare non più del camminare per perdersi ma del camminare per inciampare nell’Altro, della decisione di fermarsi a costruire uno spazio di incontro tra diversi, della nascita di Kronos e dello Spazio del Perder Tempo, del progetto indeterminato e del partecipare come cittadini alle evoluzioni meticcie di quelle Nuove Babilonie che già abitano le nostre città.


Roma, 4 agosto 2012 

Nessun commento:

Posta un commento